Ti è mai capitato di vedere un albero potuto così male da farti chiedere se fosse stato vittima di un attacco personale?
Quei poveri scheletri con ciuffetti sparati in tutte le direzioni, come se fossero usciti da un barbiere bendato?
Ecco, quello ha un nome: si chiama capitozzatura.
E no, non è una nuova danza popolare né una tecnica zen per tagliare il superfluo.
È un errore, uno dei più diffusi e dannosi.
E adesso te lo racconto per bene, perché se hai un albero, potresti anche averlo fatto senza sapere cosa stavi facendo.
La capitozzatura: l’arte di complicarsi la vita
L’idea, in teoria, è semplice.
Taglio tutto, abbasso la chioma, lo faccio “rinascere”.
Sembra quasi poetico. In realtà è come dire: “Ho mal di testa, mi tolgo la testa”.
Sì, perché l’albero non si rilassa, non si rigenera, non ti ringrazia.
Entra nel panico. E sai cosa fa?
Parte con la ricrescita disperata.
Dai tagli cominciano a spuntare rametti a grappoli, in una corsa affannosa verso la luce.
Hai presente una pianta potata bene, con chioma ariosa, rami ben distribuiti, luce che filtra tra le foglie?
Bene, adesso dimenticala.
La pianta capitozzata si trasforma in un cespuglione informe, pieno di rami verticali che crescono in modo scoordinato, spesso più deboli e pericolosi di prima.
Quasi quasi ti sembra che ti stia facendo dispetto, vero?
L’effetto vela: quando l’albero diventa una barca nel temporale
Questi nuovi rametti non solo sono brutti, ma creano una cosa che in arboricoltura chiamiamo “effetto vela”.
In pratica: la chioma diventa così fitta che il vento non riesce a passarci attraverso.
Non lo accoglie, lo sfida. E il vento, si sa, vince.
Soprattutto quando trova rami verticali, lunghi, mal inseriti, con attacchi deboli.
Hai presente quei bei cedimenti durante le tempeste?
Non sono sfortuna. Sono previsioni non fatte, errori vecchi che presentano il conto.
E la cosa più paradossale è che molti potano così per mettere in sicurezza la pianta.
Sicurezza? Dai, su. È come tagliare i freni dell’auto per risparmiare sui freni nuovi.
Ma almeno ricresce, no?
Certo, l’albero ricresce, è l’unica alternativa possibile.
Prova però a dirmi se è un bene.
Torna alla forma precedente? Più o meno.
Solo che lo fa con una rabbia confusa.
Cresce dappertutto, senza criterio, come uno che si sveglia dopo una sbronza e si mette a costruire un mobile dell’Ikea senza istruzioni.
Il risultato? Un casino.
La pianta perde la sua struttura, la sua armonia, la sua bellezza.
E tu perdi tempo, soldi e pure la pianta.
Monconi, funghi e ferite aperte
Ma non finisce qui.
Quei bei tagli netti, spesso su branche grosse, diventano porte spalancate per funghi e malattie.
Se non ributtano, rimangono lì: monconi secchi, cavità, carie.
Si aprono varchi nel legno, e il marcio si infila, cammina, scende.
Tronco, radici, il danno si fa sistemico.
E tutto perché qualcuno ha deciso che l’albero, che non dava fastidio a nessuno, andava “sistemato”.
Per cosa, poi? Per moda?
Perché “tanto ricresce”?
E se invece avessimo scelto bene all’inizio?
Ecco il punto: il problema parte quasi sempre a monte.
Letteralmente. Dalla scelta della pianta.
Dalla gestione nei primi anni.
Hai mai pensato a quanto conti impostare un albero bene quando è giovane?
Scegliere una pianta con un buon fusto centrale, evitare biforcazioni, fare tagli piccoli e mirati.
Perché poi, 30, 40, 50 anni dopo, ti ritrovi con un albero che sembra due alberi in uno, e proprio nel punto in cui biforca potrebbe spezzarsi.
Basta un colpo di vento e mezzo albero ti saluta.
Sarebbe bastato scegliere meglio.
Tagliare meno.
Osservare di più.
Ma chi ha tempo per queste cose?
O meglio: chi ha voglia?
Allevare alberi o allevare confusione?
Sai qual è il vero motivo per cui si continua a capitozzare?
Perché conviene.
Non alla pianta, eh. A chi ci lavora.
Serve il cestello, serve la motosega, serve una squadra.
C’è movimento, c’è fatturato.
È più sexy fare legna che innaffiare alberelli con la tanichetta d’acqua in estate, no?
Coltivare giovani piante, seguirle anno dopo anno, è noioso.
Nessuno ti batte le mani per aver fatto un taglio di alleggerimento su una branca di tre centimetri.
Però il risultato lo vedi dopo anni.
Ed è solido. Resistente. Vivibile.
Se proprio vuoi tagliare…
…almeno fallo con criterio.
Chiediti: serve davvero?
L’albero è in pericolo? O sei tu che non lo capisci?
Magari un ramo dà noia a un lampione? Bene.
Togli il ramo. Uno.
Non trasformare l’albero in un attaccapanni.
O peggio, in una palla informe.
E se proprio vuoi fare le cose per bene, magari pensa anche a un piano a lungo termine: piante nuove, messe a dimora nel posto giusto, con specie adatte, gestite bene fin dall’inizio.
Perché vedi, con gli stessi soldi che spendi per potare male, ogni due o tre anni, potresti piantarne cinquanta, quegli alberi.
Piccoli, umili, magari crescono piano.
Ma crescono giusti.
La verità è che l’albero non si vendica. Ti educa.
Alla lunga, l’albero che hai capitozzato ti costringe a tornare lì.
Ogni due anni.
A salire col cestello.
A tagliare di nuovo.
O a pagare di nuovo.
È come se ti dicesse: “Mi hai fatto questo? Bene, ora vediamo se hai il coraggio di continuare”.
Diventa una relazione tossica.
Un abbonamento alla manutenzione.
Una trappola economica e paesaggistica.
E se pensi che “tanto era solo un albero”, allora ti invito a riflettere.
Un albero che non dava fastidio. Che poteva diventare monumentale. Tagliato solo perché non sapevamo che farcene, sen non legna da ardere.
E quindi?
E quindi tocca cambiare testa.
Tocca pensare a lungo termine.
Tocca smettere di trattare gli alberi come oggetti d’arredo da ridisegnare ogni volta che ci stufiamo.
Se hai un giardino, un viale, un parco… ragiona come se avessi un essere vivente tra le mani.
E se proprio vuoi potare, inizia dal tuo ego.
Quello sì, merita un bel taglio se pensi che l’albero debba obbedire ai tuoi capricci.
Autore: Roberto Massai
Natural Garden Designer & Tutor